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Lamezia, ricostruita la storia della famiglia Perri: soldi falsi, contrabbando e ricettazione

La Dda di Catanzaro ha ripercorso la storia “criminale” del capostipite Antonio

La prima condanna riportata nel casellario giudiziale di Antonio Perri risale a 65 anni fa. Il capostipite della nota famiglia di imprenditori, colpita nei giorni scorsi da un nuovo maxisequestro, alla fine del 1957 viene condannato a 4 mesi di reclusione (pena sospesa) per falsa testimonianza. Sette anni dopo, nel giugno del 1964, l’accusa che gli viene contestata è di «spendita senza concerto di monete falsificate»: viene condannato a 1 anno e 8 mesi e la pena detentiva viene eseguita un anno dopo. Nel 1967 c’è un nuovo arresto, stavolta per porto abusivo d’armi, a cui segue una condanna a 2 mesi per cui nel 1970 arrivano la grazia e l’amnistia. Passano gli anni e non mancano altre contestazioni, come ad esempio quella di occupazione abusiva di spazio demaniale, mentre nel 1989 e nel 1996 diventano definitive due sentenze: con la prima, emessa dalla Corte di Appello di Catanzaro, Perri viene condannato a 2 anni di reclusione per ricettazione, ma la pena viene condonata; con la seconda, del pretore di Lamezia, gli viene comminata un’ammenda di 500mila lire per il reato (commesso a Tarsia, nel Cosentino, nel 1992) di acquisto di cose di sospetta provenienza. Questi due pronunciamenti giudiziari richiamano ciò che sul conto di Perri hanno raccontato negli anni diversi pentiti: secondo quanto messo a verbale da Gennaro Pulice, Rosario Cappello, Giuseppe Giampà, Giovanni Governa e Pasqualino D’Elia, sarebbe stato legato a diversi clan che hanno attraversato la storia della ‘ndrangheta lametina e, in particolare, avrebbe venduto merce contraffatta o proveniente da truffe e contrabbando. Grazie a questi legami Perri sarebbe riuscito a costruire, da semplice garzone di una bottega di alimentari, un impero economico costituito da diversi supermercati e culminato con la realizzazione del centro commerciale “Due Mari”. Proprio all’interno di uno dei suoi negozi è poi stato ucciso, nel marzo del 2003, secondo i pentiti per ordine dei Torcasio, essendosi lui legato alla famiglia Cannizzaro prima e Iannazzo poi, spostando così nella loro zona d’influenza una grossa fetta di attività economiche lametine.

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