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La storia di Giuseppe Averta: "Cerco di realizzare intelligenza e tecnologia al servizio dell’uomo"

L’affascinante storia di Giuseppe Averta, ricercatore nel campo della robotica. Spiega il 29enne di Serra San Bruno: «L’obiettivo? Robot più sociali, capaci di utilizzare i nostri oggetti e aiutarci nelle routine quotidiane»

In tre aggettivi si definisce testardo, paziente e disponibile. E da piccolo si armava di cacciavite, anche più di uno, per smontare e rimontare tutto ciò che gli capitava sotto mano. Il 29enne Giuseppe Averta, vibonese di Serra San Bruno, esattamente un anno fa ha vinto l’edizione 2021 del "Georges Giralt Phd Award", il premio per la migliore tesi europea di dottorato in robotica conferito dall’associazione che unisce industrie e centri di ricerca europei. Adesso continua con la passione di sempre le sue ricerche al Politecnico di Torino con un ruolo di ricercatore post-dottorato.
Per descrivere il suo mondo competitivo, democratico, vorticoso e affascinante e soprattutto per dare un consiglio ai giovani, come lui, usa un campo che sembra distante dalla ricerca ma che in realtà non lo è: quello dell'artigianato, sinonimo di genio italico da sempre: «Fare ricerca – afferma Averta – vuol dire inventare qualcosa che prima non c’era. È la nuova frontiera dei vecchi artigiani. E come tutti i lavori artigianali, cercatevi un ottimo maestro, o più di uno, perché è solo andando in bottega che si impara il “mestiere”. Fatto questo, non pensate di aver finito, perché sarete “condannati” ad imparare per sempre. E mi raccomando, non siate gelosi di quello che avete scoperto, condividete il vostro approccio e la vostra esperienza con chi verrà dopo di voi a condividere questo sogno ».
E proprio del suo sogno, delle radici, e dei progetti futuri Giuseppe ha parlato con la Gazzetta del Sud.

– Esattamente un anno fa hai vinto il “Georges Giralt Phd Award”. Come è cambiata da quel momento la tua vita? Cosa fai oggi e come sei approdato a Torino?
«Mi sentirei di dire che non è cambiata poi più di tanto. Continuo a fare la mia ricerca, certamente con un po’ di self-confidence in più. In quest’ultimo periodo sto concentrando la mia attenzione su come trasferire le abilità tipiche degli esseri umani sui robot che presto condivideranno i nostri ambienti, ad esempio per aiutarci sul lavoro o nelle faccende domestiche. Il nostro obiettivo è quello di rendere i robot del futuro realmente intelligenti, con una particolare attenzione alla loro efficienza ed efficacia, e per questo prendiamo spunto dalle incredibili capacità umane. Da settembre scorso sono un ricercatore del Politecnico, mi sono unito ad un gruppo di ricerca molto competitivo sui temi di intelligenza artificiale e insieme ci proponiamo di costruire le fondamenta dell’intelligenza dei robot del futuro».

– Che legame hai con la tua Serra San Bruno? Che ricordi hai della tua infanzia calabrese e che bambino eri?
«Mi sento spesso dire “sei testardo come tutti i calabresi”. Non so quanto ci sia di vero in questo, però sicuramente le nostre origini sono in parte responsabili di quello che siamo. Io sono molto grato alla mia terra, che mi ha insegnato che nulla ti viene regalato, ma tutto va guadagnato. Ma proprio questa consapevolezza ci permette di fare di più e meglio, ed io cerco di impegnarmi a trasferire questo insegnamento ai ragazzi che lavorano con me».

– Ti sei diplomato al Liceo scientifico con 100. Come è nata l'idea di trasferirti a Pisa per i tuoi studi universitari?
«Pisa era una città abbastanza piccola da non essere troppo dispersiva, ma allo stesso tempo dal respiro internazionale. Questo mi ha permesso di essere influenzato da tante culture, da tanti modi di fare, di pensare e di riscoprire un’innata passione nel viaggiare e nel conoscere il mondo».

– La tua famiglia come ha accolto il tuo trasferimento? Di cosa si occupano i tuoi genitori e quanto li hai resi orgogliosi con i risultati che stai raggiungendo?
«I miei genitori lavorano nel commercio e per noi figli hanno sempre voluto “un’altra vita”. Ci abbiamo ragionato tanto assieme e abbiamo deciso di fare un grande investimento, almeno per le nostre finanze, per garantire a tutti i figli le migliori possibilità. Alla fine mi sentirei di dire che un po’ ci siamo riusciti. Oggi siamo tutti laureati e lavoriamo con successo nei nostri campi, cercando di dare il nostro contributo al mondo».

– In Toscana hai anche conosciuto la tua dolce metà, diventata poi tua moglie....
«Sì, Manuela, la più grande oncologa pediatra che io conosca».

– Sei stato premiato per le tue ricerche sullo sviluppo di protesi robotiche mano-polso «robuste ed efficaci, ma allo stesso tempo in grado di compiere movimenti complessi». Ma uno dei motivi che hanno spinto gli scienziati a premiarti è stata anche la tua "semplicità". Un nuovo approccio, meno presuntuoso, verso la robotica umanoide, lontano da progetti, spesso presentati come straordinari, ma che una volta usciti dai laboratori spesso non si rivelano tali. Come nascono le tue ricerche?
«Una delle cose più belle di quello che faccio è studiare quello che già c’è e funziona, ovvero il corpo umano. Questo rappresenta un’incredibile sorgente di informazioni ed io ne prendo spunto per migliorare i dispositivi che ci devono interagire, come le protesi, i robot autonomi, o i dispositivi di riabilitazione. Una robotica fatta a misura d’uomo e fatta per l’uomo».

– Di cosa ti stai occupando adesso? Quali sono i tuoi sogni e i tuoi obiettivi?
«Oggi cerco di costruire tecnologia ed intelligenza di servizio per l’uomo nelle attività di tutti i giorni. L’obiettivo che ci siamo dati è quello di produrre dei significativi cambi di paradigma nelle strategie con cui i robot del futuro interagiranno con le persone e la società. Robot più sociali, capaci di usare i nostri oggetti e aiutarci nelle nostre routine quotidiane. Macchine che sapranno supportarci quando siamo affaticati, e magari darci un aiuto a riguadagnare delle capacità che qualche malattia può averci portato via».

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