Gli ultimi episodi sono recenti. Seppur di natura diversa – un isolato esempio positivo e l’ennesima vicenda potenzialmente negativa – entrambi rimandano a interventi della magistratura. Non è un caso, perché se si parla di diritti negati, in particolare quelli dei lavoratori e quelli dei cittadini che dovrebbero poter vivere in un ambiente sano, sul territorio lametino gli unici segnali sembrano arrivare dall’autorità giudiziaria. Che ovviamente svolge il suo compito, cioè indagare ed eventualmente reprimere i reati, ma è innegabile che tra le indagini che la Procura guidata da Salvatore Curcio sta portando avanti da anni sono ormai moltissime quelle che rivelano situazioni di inquinamento ambientale e casi di sfruttamento del lavoro. Eppure le classi dirigenti e in generale la politica – ad ogni livello e di qualsiasi colore – sembrano limitarsi ad aspettare che arrivino magistratura e forze dell’ordine, ma è chiaro che spesso, in quel caso, i danni sono fatti e non resta che “punire” secondo legge chi ne è ritenuto responsabile. Le ferite per la comunità invece restano. E quando riguardano una fetta del tessuto produttivo che lucra sui più deboli o una porzione di territorio che viene avvelenata – sempre a scopo di profitto – rischiano di trasformarsi in piaghe che la retorica non può certo curare. E a Lamezia, su questi argomenti, è rara anche quella, visto che quasi mai qualcuno, tra chi ricopre cariche pubbliche e decisionali, cerca di affrontare il problema o quantomeno di parlarne.
Mentre si guarda altrove, alcuni imprenditori di recente sono stati indagati per aver – secondo l’accusa che viene loro contestata – violato la legge costringendo i dipendenti a lavorare otto o nove ore al giorno nei campi per un salario di 30 euro. Di segno opposto, invece, la vicenda di una società sottoposta a controllo giudiziario – dopo un caso di illecito smaltimento di rifiuti speciali industriali – che rinnovando gli impianti ha garantito i livelli occupazionali e aumentato il volume d’affari.
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