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Omicidio Vinci a Limbadi, il clan voleva addossare la colpa al padre

L'autobomba di Limbadi

Il contesto in cui sarebbe maturato il femminicidio di Maria Chindamo sarebbe per certi versi analogo a quello dell’autobomba che ha ucciso Matteo Vinci. Non si tratta, evidentemente, solo dello stesso territorio (due diverse contrade di Limbadi, Montalto nel primo caso e Macrea nel secondo), ma più che altro di una realtà in cui «la proprietà terriera non solo rappresenta un importante indotto economico, ma altresì costituisce l’unità di misura della rilevanza criminale, laddove l’egemonia nella proprietà terriera funge da cartina tornasole dell’egemonia criminale». A delineare questa situazione sono i pm della Dda di Catanzaro titolari dell’indagine “Maestrale-Carthago” che, oltre a nuovi dettagli sulla sorte di Chindamo, contiene anche nuovi riferimenti all’omicidio Vinci. A rivelarli è il pentito Emanuele Mancuso: il primo collaboratore del clan vibonese ha riferito ai magistrati che nella “famiglia” qualcuno avrebbe pensato di provare ad addossare la colpa dell’esplosione che ha ucciso Vinci addirittura al padre della vittima. «…volevo dire – fa mettere a verbale Emanuele Mancuso – che ho saputo dall’avvocato Sabatino che gli avvocati della mia famiglia stavano dicendo che il padre del ragazzo che è rimasto ucciso, in passato, lavorava nell’esercito. Ciò al fine di sostenere, in caso di una contestazione nei confronti dei Mancuso, la possibilità che l’ordigno potesse essere trasportato dalle stesse vittime per fare un danneggiamento a Rosaria Mancuso». Il pentito fa riferimento all’avvocato Francesco Sabatino, coinvolto nell’inchiesta con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma nei cui confronti non viene sollevata alcuna contestazione in relazione ai due casi di omicidio menzionati. Per la morte di Vinci sono stati condannati all’ergastolo in primo grado quali mandanti proprio Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara.

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