Un nucleo familiare che è stato capace di diventare un gruppo criminale dedito alla vendita di cocaina, eroina e marijuana nel quartiere rom di via Acquabona a Crotone. Così la Cassazione definisce la rete di narcotrafficanti e spacciatori capeggiata dalla famiglia Manetta che venne smantellata con l’inchiesta “Acquamala” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Si tratta dell’operazione che, scattata il 23 ottobre del 2019 con 18 misure cautelari eseguite dai carabinieri, disarticolò l’organizzazione finita alla sbarra per aver smerciato, tra il 2015 e 2016, ingenti quantità di sostanze stupefacenti non solo nel rione di riferimento ma anche nelle zone limitrofe dove si trovano diversi istituti scolastici con l’aiuto di pusher bambini.
La quarta sezione della Suprema Corte ripercorrere i tasselli processuali scaturiti dalle indagini di “Acquamala” nelle motivazioni della sentenza con la quale lo scorso 8 giugno – nel rendere definitive dieci condanne e disporre un nuovo giudizio di secondo grado per un imputato – ha messo il sigillo sul procedimento che s’è svolto col rito abbreviato (invece deve ancora definirsi il giudizio di rito ordinario). «Accanto alla famiglia», scrivono gli ermellini richiamando la pronuncia della Corte d'Appello di Catanzaro del 7 marzo 2022, è stata riconosciuta «l'esistenza di una organizzazione articolata» e «radicata» in via Acquabona (da qui il nome parafrasato e col significato opposto dato al blitz) che poteva vantare caratteristiche ben precise: la «contabilità sui proventi delle cessioni della droga»; il mantenimento dei «contatti con plurimi fornitori, nonché con soggetti estranei alla struttura familiare», tant’è che gli stupefacenti venivano reperiti sia a Catanzaro dai “fratelli di sangue” rom che nella provincia di Reggio Calabria per essere poi immessi sul mercato; il «collegamento» e il «raccordo» con «i fornitori e tra gli associati»; le «garanzie per i pagamenti»; e infine «il recupero di crediti».
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