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Catanzaro, la detenzione dorata dei boss. "I loro pacchi non erano controllati"

Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nell’indagine sul carcere “Caridi”. Si poteva parlare anche con i capibastone sottoposti al 41 bis

I boss dei più potenti casati della ‘ndrangheta calabrese avrebbero comandato tra i corridoi del carcere di Catanzaro. A loro sarebbe stato permesso di fare tutto, di evitare controlli, di ricevere pacchi e regali come fosse un hotel. A riferirlo sono alcuni collaboratori di giustizia le cui dichiarazioni sono finite nell’inchiesta che ha portato tra gli altri all’arresto dell’ex direttrice Angela Paravati. Giuseppe Comito, un tempo affiliato ai Mancuso di Nicotera, ha raccontato che quando si è pentito Emanuele Mancuso ed era in isolamento il fratello Giuseppe «è passato dalla sezione sua, sempre alta sicurezza, ed è passato al mio padiglione. Ha saputo che c’era il fratello sotto, è entrato dentro una cella, perché le celle erano aperte e inveiva contro il fratello. Era giorno ricordo, è stato un po’ nel nostro padiglione in una cella per gridare al fratello». Nessuno della polizia penitenziaria si sarebbe avvicinato per fermarlo.
Anche il collaboratore Massimo Colosimo ha descritto la libertà di cui godevano gli esponenti della criminalità organizzata. In un verbale ha sostenuto che durante i «passeggi» si poteva tranquillamente intrattenere con i boss reclusi al 41 bis, «nessuno ci diceva niente». In carcere come nel loro territorio. Tanto è vero che sempre Colosimo racconta di aver ricevuto la dote di ‘ndrangheta nel penitenziario Ugo Caridi: «Io ho preso la dote quando stavo al terzo piano, la dote mi è arrivata da giù». Un esponente del clan Trapasso avrebbe mandato la carta della copiata al «boss di riferimento Cataldo Marincola che stava nella copiata», infine un terzo affiliato si sarebbe occupato di far sapere a tutti gli ndranghetisti detenuti in quel momento che «ero un uomo della cosca con la dote di sgarro».

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