Ciò di cui si ha prova è «una sorta di ammirazione fideistica che taluni mafiosi – anche estranei alla cerchia dei più stretti accoliti – provano nei confronti della sua autorevole figura». Un generalizzato apprezzamento, insomma, che è valso a Luigi Mancuso definizioni come «Presidente del Consiglio della 'ndrangheta» e «numero uno». Ma non è affatto provato come concretamente lui abbia esercitato queste “funzioni presidenziali” in qualità di presunto vertice assoluto della 'ndrangheta vibonese. Sono le considerazioni, per certi versi clamorose, che i giudici del Tribunale di Vibo (presidente Gianfranco Grillone, a latere Laerte Conti e Alessio Maccarone) hanno inserito nelle motivazioni della sentenza “Petrolmafie”. Per Luigi Mancuso, la cui posizione proviene da uno stralcio di “Rinascita Scott”, la condanna emessa è di 30 anni di reclusione, ma la sentenza non gli riconosce il ruolo di vertice del “Crimine” che dominerebbe la provincia vibonese. Si tratta di conclusioni diametralmente opposte a quelle a cui sono giunti i giudici di un diverso collegio del Tribunale di Vibo che hanno emesso la sentenza del maxiprocesso “Rinascita Scott”. La contraddizione più evidente tra i due pronunciamenti riguarda proprio la presunta unitarietà della 'ndrangheta vibonese, affermata nelle motivazioni di “Rinascita” e smentita in quelle di “Petrolmafie”.
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