Un summit al cimitero aveva sancito, un decennio fa, la fusione tra i clan Lo Bianco-Barba e Pardea “Ranisi” e la creazione di un “Buon ordine”. Sebbene fossero stati invitati da colui che sarebbe diventato il “capo società”, ovvero Vincenzo Barba, i Pugliese “Cassarola” non si erano presentati alla riunione. E qualche anno dopo, nel 2016, anche il gruppo Pardea si sarebbe di nuovo distaccato dal clan. La ricostruzione, offerta dal collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena durante il maxiprocesso “Rinascita Scott”, è riportata nelle motivazioni che hanno portato alla condanna a 30 anni di Paolino Lo Bianco, cioè uno degli elementi di vertice del clan. Il pentito gli ha attribuito «funzioni decisionali» che sarebbero state condivise con gli altri presunti elementi apicali: Carmelo Lo Bianco, Vincenzo Barba (condannato a 28 anni) e Filippo Catania (22 anni), succeduto ad Antonio Macrì (20 anni e 10 mesi) nella carica di “contabile”. L’assetto sarebbe rimasto tale almeno fino al 2019, anno dell’inizio della collaborazione di Arena. Lo Bianco sarebbe rimasto un po’ defilato nel periodo immediatamente successivo alla sua scarcerazione, ma poi «rientrava formalmente di nuovo nella “società”, in particolare – scrivono i giudici in sentenza – dopo la cessazione nei suoi confronti della misura della sorveglianza speciale». Che dopo la morte del padre Carmelo proprio Paolino sia divenuto il «capo» dei Lo Bianco lo hanno confermato anche Michele Camillò ed Emanuele Mancuso.
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