Nei giorni scoesi presso l'Aula dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati si è svolta la cerimonia di premiazione del Concorso di educazione alla cittadinanza e alla legalità, anno scolastico 2022-23, Concorso di idee nazionale "Vittime del dovere nella Costituzione: art 4 - Il lavoro è diritto e dovere".
Tra le scuole calabresi protagoniste c'è l'IC Murmura di Vibo Valentia guidato dalla dirigente Tiziana Furlano. Referenti del progetto le prof. Anna Ruggiero, Ersilia Adamo affiancate dai prof. Gregorio Ferito e Giusy Staropoli. A realizzare il lavoro le alunne e gli alunni della classe 3 E.
La nostra attività - si legge nel documento redatto dall'IC Murmura - ha preso avvio dalla lettura e analisi dell’’articolo 4 della Costituzione della Repubblica italiana che recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società."
In classe abbiamo riflettuto sul fatto che il lavoro è un dovere di ogni cittadino, oltre a essere un diritto, e che ognuno di noi ha il compito di svolgere con scrupolo e senso di responsabilità il proprio dovere professionale. Sarebbe bellissimo se ogni cittadino avesse la possibilità di svolgere il lavoro che ama, come affermava Primo Levi, nel suo libro “La chiave a stella” , in cui asseriva: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”. Sicuramente tutte le persone che hanno sacrificato la loro vita per il dovere hanno amato la loro professione. Sono state senza dubbio figure eroiche, personalità eccezionali, che hanno sacrificato la loro vita, i loro affetti e la loro professionalità al servizio dello Stato e nella speranza di una piena attuazione dei diritti Costituzionali. Ciò che li qualifica come giganti della nostra Repubblica è la loro consapevolezza di andare incontro a un sacrificio immenso. Conoscevano il rischio che correvano, eppure non si voltarono dall’altra parte, non risposero alla chiamata con l’indifferenza, ma modellarono il loro percorso professionale sul senso di responsabilità e si ispirarono all’impegno e al dovere nel loro lavoro di custodi della legalità. 2 Per celebrare il loro coraggio, la loro passione per il lavoro, il loro sacrificio, abbiamo cercato di immaginare in che modo la loro vita, che è un esempio di grandezza e di bellezza, potesse entrare in contatto con i capolavori dell’arte e della letteratura, che sono ciò che più si avvicina alla bellezza sulla Terra.
Abbiamo quindi rappresentato i magistrati uccisi dalle mafie e dal terrorismo all’interno dell’albero della vita di Klimt, e li abbiamo immaginati tra i cieli di Dante, splendenti della luce del Paradiso e dei colori di Dalì, che del Paradiso dantesco ha colto l’esplosione di giustizia, gioia e luminosità. L’opera di Klimt che abbiamo reinterpretato è simbolo del ciclo della vita e della connessione tra cielo e terra. Mani criminali, incoscienti del valore sacro della vita, hanno profanato il corpo di questi eroi del nostro tempo, riducendolo al silenzio, ma le loro idee non sono passate invano, hanno generato nuova linfa, dalla quale scaturisce quotidianamente la speranza di costruire una società civile solida, in cui non ci sia spazio per le associazioni criminali. Il nostro lavoro nasce dunque dalla consapevolezza che l’arte e la letteratura hanno un alto potere: educare alla bellezza e alla sensibilità, al rispetto per gli altri e per il mondo in cui viviamo, alla capacità di pensare in modo libero. Tutti elementi indispensabili per costruire società giuste e pacifiche. Gli antichi chiamavano studia humanitatis queste discipline, perché sono ciò che ci contraddistingue come umanità e quindi come esseri pensanti. Perciò l’arte, la musica, la scienza, la poesia sono ricchezze, create dagli esseri umani per proteggere sé stessi nei momenti in cui sembrano prevalere la barbarie e la distruzione. Esse ci ricordano, come affermò Ulisse, che “Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza”. Per onorare Dante, la cui Commedia ci insegna che gli esseri umani possono scendere fino agli abissi del male, ma anche innalzarsi alle vette del Paradiso con azioni eroiche e sacrifici immensi dettati da altruismo e senso di responsabilità, abbiamo scelto di rappresentare questi eroi del nostro tempo nelle vesti degli spiriti giusti che Dante colloca nel Paradiso.
La frase scelta dal poeta fiorentino a rappresentare l’avventura terrena delle anime combattenti in nome della giustizia incarna perfettamente l’ideale seguito da tutti coloro che sono morti in nome del dovere e del senso di responsabilità: DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM. Purtroppo non abbiamo potuto approfondire come meritano tutte le figure di eroi del dovere, quindi abbiamo concentrato il nostro lavoro sulla storia delle quattro figure di magistrati calabresi: i Giudici Ferlaino, Calvosa, Scopelliti e Daga. Quattro figli della Calabria che, con la loro vita, dimostrano che la Calabria non deve essere ricordata per le associazioni criminali, che ne deturpano la bellezza, ma anche per la grandezza umana e professionale di alcuni suoi figli indimenticabili. E soprattutto che nella nostra terra vivono principalmente brave persone, dedite al lavoro e alla famiglia, che però fanno meno rumore e meno notizia delle persone che si dedicano alle prepotenze e ai soprusi. Il dipinto che riproduce “La Porta del Paradiso” di Salvador Dalì è dedicato al Giudice Francesco Ferlaino, assassinato da sicari appartenenti alla ‘ndrangheta il 3 luglio del 1975 mentre rientrava a casa per il pranzo. I suoi familiari e quanti ebbero l’onore di conoscerlo ricordano un uomo colto, un fine latinista, un amante della musica e dei classici, un religioso fervente. La nipote Marina, nel raccontare la sua storia in un'intervista concessa al Quotidiano del Sud, non dimentica di citare la sua passione per la musica, il legame con la terra che mai abbandonò, la sua determinazione e il suo senso del dovere verso lo Stato. Lo ricorda raccontando: “Lui la mattina andava prima in chiesa e poi in tribunale. Aveva una fede profonda.”
Perciò abbiamo scelto per lui alcuni versi danteschi del canto XIV del Paradiso, dedicato agli spiriti militanti, dove Dante avrebbe sicuramente incontrato i nostri giudici se avesse compiuto il suo viaggio nel XX secolo. E il Giudice Ferlaino si rivolgerebbe al pellegrino Dante con le parole: “Con tutto ‘l core e con quella favella/ ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto/ qual conveniesi a la grazia novella./ E non er’anco del mio petto essausto/ l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi/ esso litare stato accetto e fausto.” Per raccontare la storia del giudice Fedele Calvosa, ucciso dalle Formazioni Comuniste Combattenti l’8 novembre 1978, abbiamo scelto il dipinto di Dalì raffigurante il canto XV del Paradiso. Qui Dante incontra il suo avo Cacciaguida, che gli parla, tra le altre cose, della sua morte avvenuta combattendo per la fede. Anche il giudice Calvosa sarebbe sicuramente tra gli spiriti combattenti, perché la sua vita è stata improntata alla lotta per rendere il mondo un posto più giusto in cui abitare. Perciò, se Dante avesse scritto oggi il Paradiso, certamente lo avrebbe popolato delle anime di coloro che hanno sacrificato la vita per la giustizia e le stesse parole pronunciate da Cacciaguida potrebbero essere ribadite dal Giudice Calvosa “Quivi fu’io da quella gente turpa/ disviluppato dal mondo fallace,/ lo cui amor molt’anime deturpa;/ e venni dal martiro a questa pace”.
Il dipinto dedicato al Giudice Scopelliti è ambientato nel canto XIV del Paradiso, luogo di transizione tra gli spiriti sapienti e gli spiriti militanti. È in questi versi che al poeta fiorentino appare una Croce, splendente della luce dei beati che vi sono raffigurati. La luminosità del Paradiso si scontra con il buio che proviene dalla Terra, dove si consuma il delitto di un uomo giusto che, per la grandezza del suo sacrificio e per gli alti valori che guidarono la sua vita, è proiettato immediatamente in un luogo di luce e beatitudine. Da vivo il Giudice reggino aveva affermato “"... il giudice non è mai popolare, soprattutto il Pubblico Ministero, che è quasi sempre impopolare in tutti i processi. Il giudice va incontro a critiche, a volte anche aspre, vivaci, a volte anche ingiuste, ma non può sacrificare il suo ministero, la sua milizia ormai, per una popolarità che non è un suo privilegio, può essere popolare o impopolare ma deve fare anzitutto il proprio dovere. L'importante è avere la coscienza di fare il proprio dovere. È questo secondo me il traguardo unico ed essenziale che il giudice deve proporsi sempre."
E allora anche a lui, come a Dante, potrebbe sorgere un dubbio lacerante “Giù per lo mondo sanza fine amaro, […]/ ho io appreso quel che s’io ridico,/ a molti fia sapor di forte agrume;/ e s’io al ver son timido amico,/ temo di perder viver tra coloro/ che questo tempo chiameranno antico”. Ma la risposta potrebbe essere una sola:” Coscienza fusca/ o de la propria o de l’altrui vergogna/ pur sentirà la tua parola brusca./ Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,/ tutta tua vision fia manifesta;/ e lascia pur grattar dov’è la rogna.” “ Chè se la tua voce sarà molesta/nel primo gusto, vital nodrimento/ lascerà poi quando sarà digesta./ Questo tuo grido farà come vento,/ che le più alte cime più percuote;/ e ciò non fa d’onor poco argomento”. Lo stesso discorso, iniziato nella Divina Commedia per il Giudice Scopelliti, avrebbe validità per il Giudice Luigi Daga, che abbiamo rappresentato con il dipinto di Dalì “La scala celestiale”. Abbiamo infatti immaginato che il suo percorso umano e professionale, pur caratterizzato dalla bellezza della luce, deve essere stato altrettanto faticoso e impegnativo. Questa scala rappresenta il simbolo della sua battaglia per la piena affermazione dell’articolo 27 della Costituzione Italiana, che afferma: “La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
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