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Enotrio Pugliese, pittore poeta di un mondo scomparso: il ricordo a 30 anni dalla morte

«Cu' sti cazzi i ricordi / ndi scifula la vita sutt'e pedi. / Tu spingi mu vai avanti, / Iji ti tiranu p'arredi» (Carte segrete, 1976). Enotrio Pugliese aveva forte il senso dei luoghi e del tempo che passa. Aveva memoria e culto di paesi, cose, persone; lasciava segni, con dipinti, incisioni, versi, racconti. A 30 anni dalla sua scomparsa, non un articolo, un servizio televisivo, un convegno, una mostra hanno ricordato questo grande poeta dei nostri paesi-presepe, delle marine vuote, delle porte chiuse, in questa Calabria delle mille retoriche della memoria e narrazioni di magnifiche sorti e progressive.

E dire che se l'idea della Calabria generosa, accogliente, ospitale, anche solare e melanconica, ha una sua legittimità lo dobbiamo proprio a figure come Enotrio, uno degli artisti calabresi più noti e originali della seconda metà del Novecento.

Nato a Buenos Aires nel 1920 da genitori emigrati a inizio secolo da San Costantino Calabro, dopo il rientro in Italia nel 1926 cresce in paese, in un ambiente familiare che offre spunti artistici - il padre era un famoso violoncellista -, ed è qui che comincia a maturare la scelta di stare dalla parte dei ceti popolari. Conseguita la maturità classica nel 1939 a Vibo Valentia, si trasferisce a Roma dove parteciperà alla Resistenza. Frequenta lo studio del pittore Domenico Purificato e, assieme al poeta Franco Costabile a cui è legato da amicizia fraterna, negli anni del dopoguerra sarà tra gli artisti più noti della Capitale.

Espone per la prima volta in una personale alla Galleria del Cortile con una serie di opere dedicate all'eccidio delle Fosse Ardeatine. Dai primi paesaggi ispirati dalla periferia romana, Enotrio rivolge i suoi interessi ai luoghi della Calabria. Se nelle sue opere inizialmente ritornano i paesi dell'infanzia, prende sempre più consistenza la Calabria che l'artista visita, scopre, “fotografa” in maniera sistematica, da viaggiatore partecipe e curioso. I “paesi-presepe” arroccati e sospesi; le stazioni deserte, o discretamente popolate di emigranti in attesa dei treni; le porte che ci parlano di chi abita le case; le barche legate ai paletti quasi a scongiurarne la fuga; le reti dei pescatori adagiate sulla sabbia; le nuvole che ora spezzano ora danno continuità alla luce e ai colori del mare e del cielo; le torri e i ruderi che alludono a storie di invasioni e di oppressione; i volti scavati per la fatica, il sole, la solitudine: sono questi i motivi, dalla forte rilevanza antropologica, della pittura di Enotrio.

A partire dal 1965 Pasquale Accorinti, come Lucia, Tano e Anna figlio dell'amata sorella Costanza, accompagna lo zio in motocicletta di paese in paese. Dai suoi racconti emerge un Enotrio esperto motociclista e abile artigiano, ma anche pittore attento e perfezionista, ossessionato dalla luce e dai colori, dai loro contrasti e dalla loro definizione. Le foto a colori che scattava con una Nikon erano appunti a cui attingere idee, paesaggi, soggetti, personaggi. Sceglieva gli ultimi nella scala sociale e ultimi abitanti di un mondo che stava scomparendo. Le porte chiuse, i muri con i disegni dei bambini fatti con il carbone, con i manifesti a lutto o di promesse elettorali mai mantenute, i paesi arroccati, le barche solitarie - che ci vengono diversamente restituiti sia dalla scrittura di Alvaro che dalla pittura di Enotrio - non sono evocati in modo sterile, ma per leggere segni, voci, messaggi del passato che costituiscono una critica al presente così com'è.

«A lu paisi meu / Si nesci di dui vandi / I na vanda u Carvariu, / I l'atra a nazionali. / D'adduvi nesci nesci / È sempi uguali, / Si no' poi cchju tornari». Ritraeva la natura, i segni, le tracce, i volti, la fatica, il dolore di uomini di un mondo antico in dissoluzione. La sua pittura custodisce memorie di un universo sempre più irrimediabilmente sconvolto da una modernizzazione violenta e inautentica, che intuiamo presente, anche se al di là della composizione. Il bambino che aspetta in riva al mare, che cosa sta guardando? Attende i pescatori che debbono tornare o pensa al padre di là dell'oceano? Nei quadri e nei versi Enotrio racconta una cultura dei luoghi, delle persone, dei paesi che attendono: «Quandu nescivi patrima / era a Merica. / Fici u sordatu e patrima /era a Merica. / Mi maritai e patrima / era a Merica. / Mama moriu e patrima / era a Merica. / Aguannu tornau patrima d'a Merica / Pe' nommu mori a Merica».

Il suo sguardo depura il paesaggio della Calabria dalle confusioni e dalle devastazioni di una modernità rovinosa e violenta. Mi viene in mente il nostro comune e immenso amico, lo scrittore Sharo Gambino che, lungo la strada che portava alla Certosa di Serra, chiudeva gli occhi per non vedere il luogo dove erano stati tagliati alberi secolari per costruire una caserma. Un piccolo grande mondo antico da non rimpiangere né mitizzare, un universo di persone e non di figure, di oggetti essenziali e non di merci inutili. I tetti le marine le porte nei suoi quadri sembrano più “veri” della realtà, come se i soggetti fossero il riflesso della sua pittura, e non viceversa. Ma Enotrio non copia la realtà: la seleziona, la inventa attraverso la memoria e lo sguardo, mettendo in gioco concezioni artistiche, scelte politiche, legami con la terra d'origine. È una pittura poetica, metaforica. Il suo “realismo” visionario è rivolto a un mondo perduto, ma anche a un mondo sognato, alla ricerca di altrove, di cambiamento delle popolazioni calabresi.

Enotrio aveva un generosità disarmante, una gentilezza inconfondibile, un sorriso che fugava ogni melanconia. Alla sua S. Costantino, dove adesso è sepolto, donò una “Casa del Popolo”, con la speranza che divenisse un luogo di incontro, di cultura, di accoglienza per tutti i paesani. Poco prima di andarsene, a Pizzo il 21 agosto 1989, ormai ammalato, mi donò una stampa che ritrae un paese con le case grigie, adagiato sopra una roccia circondata da erbe, sbattuto in mezzo alle nuvole. C'è scritto «a Vito con l'affetto fraterno di sempre. Enotrio 19889 [sic]».

Un numero senza tempo, senza scadenza. Come i ricordi, le immagini, le visioni, le utopie e i segni che ha affidato a tutti noi.

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