Docente, ma soprattutto artista riconosciuto. Non a caso lo scultore calabrese Alfredo Mazzotta è stato festeggiato – appena in tempo prima che l’era del Covid stravolgesse le nostre vite – per i suoi primi 50 anni a Milano con un’importante mostra nel Museo della Permanente. E, appena sarà possibile, inaugurerà lo spazio espositivo dell’Atelier Pellini con la personale “Figure in contorsione”, il tipo di sculture che è diventato la sua cifra distintiva. Unica “finestra” che la pandemia ha consentito: un’importante mostra a quattro (tutti scultori) nel Castello di Vigevano.
Nel frattempo vive la “clausura” continuando a lavorare alle sue opere. Mazzotta è arrivato nel capoluogo lombardo da Nao di Jonadi, in provincia di Vibo Valentia, dove è nato nel 1951. Dopo essersi diplomato Maestro d’Arte in Calabria, scelse l’Accademia di Milano perché voleva frequentare i corsi di quel grande scultore che è stato Luciano Minguzzi. Da lì è cominciata una carriera ricca di mostre e riconoscimenti, dedicata anche all’insegnamento: dal 1975 al 2011 è stato docente di Discipline plastiche nel Liceo artistico statale Brera. Di Eros Pellini è stato assistente e amico e l’Atelier fu dello scultore e ancor prima del padre Eugenio, considerato l’unica testimonianza visiva di uno studio di inizio Novecento a Milano. Esuberante, legato ai grandi temi dell’esistenza e dell’arte come anche al peperoncino rosso della sua Calabria, Mazzotta è un grande conversatore.
Nelle sue opere si scorgono ascendenze diverse tra loro. Come ha cominciato?
«La mia scultura nasce da bambino quando ho realizzato un presepe con l’argilla che si trovava nell’orto di casa, in seguito all’Istituto d’Arte di Vibo copiavo le statue greche. Questo studio è proseguito all’Accademia di Brera con la copia dei gessi classici e delle modelle. Minguzzi è stato fondamentale nella mia crescita, ha arricchito le mie conoscenze dandomi anche libri di grandi scultori: Martini, Boccioni, Brancusi, Moore, Arp e Viani. Sono rimasto affascinato e li ho studiati».
Lei si collega alla produzione della Magna Grecia calabrese?
«Da ragazzo mi piaceva guardare i vasi e la bellezza delle figure greche, volevo riuscire a fondere la forma del vaso con le figure in un’unica “forma significante”, da racchiudere in un cerchio o ovale se disegno, in un uovo o sfera se scultura».
Come si pone rispetto alla scultura contemporanea: Moore, Brancusi e altri?
«Ho guardato i contemporanei, ma ho messo al centro della mia ricerca quasi esclusivamente la figura femminile mirando all’essenziale, togliendo il superfluo che poteva disturbare la forma tonda/ovale. Amo la morbidezza, il tondo senza spigoli e senza fraseggi».
Lei è stato allievo di Minguzzi e di Purificato, assistente di Pellini: cosa ha “rubato” da loro?
«Sono tre grandi artisti con i quali ho vissuto tanto tempo, sia a livello professionale sia amicale. Da loro ho acquisito responsabilità professionale e rispetto verso gli altri artisti. Minguzzi aveva grinta, senso critico e laboriosità, con lui ho imparato molte tecniche, il senso di rinnovarsi e di sintesi senza avere paura di eventuali critiche; ero molto timido e mi ha fatto acquisire personalità. Purificato era pittore, scrittore e critico d’arte, mi ha aiutato nel gusto del colore e della lettura critica delle opere. Bellissimo lo scritto sul mio lavoro per il catalogo di una mostra alla Galleria Mioccio (1976) dove analizzava la mia scultura con attenzione sia dal lato tecnico sia da quelli umano ed estetico. Eros Pellini per me è stato fondamentale. Quanta emozione quando mi ha chiamato nel suo studio (1975) per stilare “insieme” il programma didattico! Il primo giorno di scuola mi ha presentato alla classe consegnandomi il registro e dicendo: “Il prof. Alfredo Mazzotta è il vostro nuovo insegnante insieme con me”. Sono stato suo assistente alla cattedra e in studio fino alla sua morte. Di lui ammiravo signorilità, serenità, umanità e attaccamento al lavoro, qualità che ho cercato di fare mie».
Nelle sue opere è ricorrente la “contorsione”: perché?
«È un tema che ho affrontato da sempre e che si è accentuato negli anni. Cerco di rappresentare le difficoltà della vita, non come gesto fisico, ma come senso del vissuto, i sacrifici, i lutti, le sofferenze, le lontananze. Tutti questi elementi sono stati vissuti in famiglia e da me percepiti, metabolizzati e poi, nel tempo, manifestati nelle opere. La figura è sempre femminile in ricordo del vissuto di mia mamma e di mia nonna Rosa».
Lei predilige il bronzo, ma usa anche altri materiali. Come li sceglie?
«Utilizzo di più il bronzo perché è una materia preziosa e calda e permette di riprodurre fedelmente, anche in più copie, la stessa opera. Ho realizzato grandi sculture in pietra leccese, siciliana e veneta direttamente nei luoghi di collocazione delle opere; ho utilizzato la resina a fibra di vetro perché si possono realizzare sculture grandi e vuote, quindi non pesanti. Uso la terracotta perché immediata, calda e ricorda la nostra origine; altri materiali li creo da me mescolando vari elementi».
Come nasce, materialmente, una sua opera?
«Sono uno scultore legato al passato come tecnica: ogni opera deve nascere dalle mie mani dopo averla pensata, disegnata, creato le strutture per la modellazione in argilla, calco (negativo) in gesso, colata in gesso (positivo), sfornatura e rifinitura dell’opera, posizionamento sul basamento e, infine, in fonderia per la fusione. La fusione avviene a cera persa, come facevano i greci».
Lei non tralascia pittura e grafica: cambia qualcosa nel suo essere artista quando utilizza questi altri mezzi espressivi?
«Disegno molto e dipingo (un po’ meno), realizzo anche incisioni, litografie e linoleografie; ciò mi permette di realizzare opere che non si possono fare tridimensionalmente. Si lavora in base e altezza, e con colori e segni si simula la terza dimensione attraverso luci e ombre».
Una curiosità: abbiamo visto una sua opera realizzata con una prima pagina di “Gazzetta del Sud”: come è nata, quando e perché?
«Nasce da un invito per la mostra “L’arte in prima pagina” organizzata dal Comune di Cuggiono (MI) in occasione del Solstizio d’estate del 2012, nella splendida Villa Annoni. Ho utilizzato Gazzetta del Sud perché è il primo giornale che ho comprato quando avevo nove anni (1960). Di quella prima pagina mi avevano colpito le foto di Del Piero e Gattuso, due miei idoli sportivi, e in basso un articolo sul peperoncino... mito calabrese. C’erano, quindi, vari motivi per trovare ispirazione».
Lei è milanese di adozione: cosa le manca della Calabria?
«Mi definisco “calalombardo”. Più di cinquant’anni di Milano... ma della mia Calabria mi manca tutto: il mio paesello Nao, dove si andava a cercare gli amici anche senza preavviso, le tradizioni festive, i cibi genuini coltivati con amore nell’orto, i compagni d’infanzia, il mare di Tropea, Capo Vaticano, Briatico, Pizzo Calabro con i suoi straordinari tartufi, il pane, le paste, i dolci fatti in casa (nacatuli, pie ecc...), le cassette di pesci comprate dai pescatori, le feste nelle aie dopo la trebbiatura (che profumi e sapori!) mangiando sulle balle di paglia in mezzo a un verde infinito. Basta, altrimenti mi commuovo».
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