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Stefano Bollani, il piano e Jesus Christ Superstar L'INTERVISTA

Avesse avuto un piano, l’avrebbe suonato.

Per raccontare che il recital di domani sera al Grandinetti di Lamezia (inserito nel cartellone del 44esimo MusicAMA – Un grande evento chiamato Calabria) sarà una dedica di “Piano Variations on Jesus Christ Superstar”, Stefano Bollani avrebbe usato sette chiavi più una, di lettura, la sua. L’avrebbe detto tra i tasti che sarà sì la storia d’amore fedele tra lui e quella rock-opera che lo affascina fin da quando era ragazzino, ma senza testi, coro, cantanti. Lui e il piano, solo. Salirà sul palco attraverso una “scaletta importante” per poi scendere, incamminarsi, inerpicarsi, per perdersi come chi conosce la strada. Naturalmente con la benedizione di Webber. «Lui di solito non ama che cambino le note che ha scritto o che s’improvvisi sopra le strutture che ha pensato. E invece stavolta ha dato il permesso a scatola chiusa».
Glielo ha chiesto prima di entrare in studio perché, oltre ad eseguirle dal vivo, le ha registrate anche in un disco (omonimo) le sue personali “divagazioni”. «Gli abbiamo mandato degli esempi in cui io scarnificavo o distruggevo canzoni dei Beatles o di James Brown, in modo che avesse un’idea del trattamento che lo aspettava. Ha ricevuto le cose più estreme, perché lui fosse pronto a tutto… ed è andata bene. Le melodie di Webber sono così belle che è irresistibile la voglia di smontarle e rimontargliele».
E no, registrare, fissare improvvisazioni non è controsenso. Bollani ha fatto pace con certe contraddizioni già tanto tempo fa. Col compositore che vive dentro l’improvvisatore e che di tanto in tanto si dice… «ok, il pezzo è giusto, consegniamolo ai posteri». Come con la consapevolezza che il giorno dopo «lo cambierò perché sarò già cambiato io». Il disco è una foto, di un momento. Il giorno dopo sarebbe uscito diverso? Pace. «Ci sono brani che suono da sempre, che qua e là riemergono. Ad esempio il mio “Barbone di Siviglia”, ogni tanto mi parte la mano e vado a finire su quel pezzo. Ma sempre con la speranza dell’evoluzione».

Poi c’è la ricerca della contaminazione, più che altro dell’integrazione, che non è proprio la stessa cosa…
«Integrazioni sono quei contesti in cui faccio la gazza ladra. Incontro un musicista danese, un direttore d’orchestra estone o un improvvisatore spagnolo e cerco di carpire, capire. Come ragionano gli altri, come sentono la musica. Contaminazioni, invece, è un termine che in questo periodo tenderei ad evitare! Già non mi piaceva granché prima, sapeva di malattia. Adesso che è l’argomento del momento anche peggio».
Il Covid ha creato uno spazio o un buco?
«Ho una risposta facile. Per qualcuno uno spazio, per altri un buco. Io faccio parte di quelli che hanno tratto. Non ho paura di perdere il lavoro. Mi sono chiuso in casa con Valentina e abbiamo scritto un programma radio, uno tv, una colonna sonora, nuovi pezzi. Ho approfittato. Della forza evolutiva, del calcio in avanti».
La musica ha il potere della collettività, ma anche della nostalgia…
«La musica fa un sacco di cose, talmente tante che ognuno trova la propria. Mi è mancato il tutti insieme in una stanza a celebrare un’idea di bellezza. Sul palco o in platea, comunque tutti lì a sperare nella bellezza. Se escludi messe o partite di calcio o riunioni sindacali, non ci sono tanti riti così in giro».
Quindi quanto porta, quanto importa il luogo?
«Molto. Il luogo, il pubblico, il pianoforte, il cibo che hai mangiato e il tuo umore. Non saprei in che ordine, perché probabilmente è democratico, orizzontale».

Dallo spirito del Rinascimento, la goliardia, l’ironia quando è sarcastica che «come toscanaccio mi porto dentro da bambino». A quel rapporto stretto con le parole che… «vedi quanto chiacchiero?». Dall’ «anelito alla perfezione, il profumo d’eternità, la tendenza all’infinito» che gli suscita la classica al sapore orientale, esotico del jazz, «dove l’idea è che presente sia l’unico tempo». Senza compartimenti, senza sopra né sotto. «Dovessimo spiegarlo ad un alieno, in natura non esiste differenza tra Beethoven e Jimi Hendrix. È solo nella nostra testa, dentro le nostre convenzioni».

“Voglio cantare, voglio suonare, voglio essere Celentano”. Ci sei riuscito?
«Ancora no, ma ci stiamo lavorando!».
Gli obiettivi, quando non cambiano vuol dire non averli raggiunti?
«Oppure che tieni gli stessi, ma li sposti più in là».
Hai mai rischiato che la musica diventasse il tuo lavoro piuttosto che il tuo mestiere?
«Se c’è stato è durato un’oretta e sono andato via».
Il futuro della musica è indietro?
«Penso, spero che torni a splendere nel suo aspetto rituale. Là dove è nata, tutti intorno ad un fuoco…».
Sullo stesso piano. Niente platea, niente palco… dove ti metteresti?
«Mi candido a sciamano. Magari quando avrò novantacinque anni e potrò millantare saggezza…».

Se avrà un piano… ci risentiremo lì.

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