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Concluse le indagini
sull’omicidio Di Leo

Omicidio Di Leo, il presunto killer resta in cella

Concluse le indagini preliminari sull’omicidio di Domenico Di Leo (detto Micu ‘i Catalanu), ucciso a Sant’Onofrio nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 2004.

L’avviso, a firma del pm distrettuale Camillo Falvo, con contestuale informazione di garanzia è stato notificato a Francesco Salvatore Fortuna, 36 anni di Sant’Onofrio. L’indagato (difeso dall’avvocato Salvatore Staiano e dall’avvocato Sergio Rotundo) si trova in carcere dallo scorso gennaio in quanto ritenuto uno dei componenti del commando che tese l’agguato a Domenico Di Leo. A distanza di ben 12 anni dal delitto a incastrare Fortuna, ritenuto dagli inquirenti organico e con un ruolo non secondario al clan Bonavota di Sant’Onofrio – gruppo di cui avrebbe fatto parte anche Micu ‘i Catalanu «quale braccio armato» – , sarebbero state le tracce di Dna su alcuni guanti di lattice rinvenuti a poche ore dall’omicidio nell’auto abbondanata dai killer e parzialmente incendiata. Le analisi eseguite sui guanti hanno consentito di isolare un Dna che, comparato con il profilo genetico dell’indagato, avrebbero dato completa sovrapponibilità. Risultato che per il gip distrettuale – che lo scorso febbraio emetteva un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Fortuna (inizialmente sottoposto a fermo) – «fornisce un pieno riscontro a tutti gli altri elementi emersi nel corso degli anni, in relazione al contesto associativo in cui è maturato il grave fatto di sangue, ai soggetti coinvolti e al movente».

Omicidio aggravato dalle modalità mafiose, detenzione illegale e porto illegale di armi da fuoco comuni e da guerra e ricettazione (in relazione al furto della Fiat Uno rubata a Pizzo e utilizzata dai sicari) i reati ipotizzati nei confronti di Fortuna.

Nello specifico – secondo la ricostruzione del pm distrettuale – l’indagato «in concorso morale e materiale con altri soggetti in via di identificazione» avrebbe «con più azioni esecutive di un unico disegno criminoso, anche in tempi diversi perpetrate, con premeditazione, pianificando nei minimi dettagli, portato a compimento l’agguato» in via Tre Croci di Sant’Onofrio.

Nella notte tra l’11 e il 12 luglio 2004 la vittima, in prossimità della sua abitazione (dove stava rientrando a bordo di una microcar dopo essere stato in ospedale), fu raggiunta da raffiche di kalashnikov e di fucile a pompa caricato a pallettoni. Furono oltre 45 i bossoli repertati sul luogo.

E sempre in «concorso morale e materiale con altri soggetti in via di identificazione» viene contestata a Fortuna la detenzione del un fucile cal. 12 e del kalashnikov utilizzati per l’imboscata Di Leo, nonché il furto a Pizzo della Fiat Uno usata per raggiungere il luogo dell’agguato e il suo successivo danneggiamento tramite incendio.

Secondo quanto ricostruito da Dda e carabinieri della Compagnia di Vibo Valentia, a determinare l’uccisione di Domenico Di Leo sarebbero state frizioni all’interno del clan Bonavota. La vittima insomma era «divenuta pedina scomoda per il suo clan». In particolare Di Leo sarebbe entrato in conflitto con i vertici della cosca per alcuni interessi commerciali sulla zona di Maierato. Ma a far precipitare le cose – al di là di una relazione sentimentale che un esponente dei Bonavota avrebbe avuto con una sua congiunta – sarebbe stato l’ordigno piazzato all’autosalone De Fina che sarebbe stato “sotto protezione” dei Bonavota. Per gli inquirenti, quindi, nei vertici della ‘ndrina sarebbe emerso il «timore che Di Leo potesse porre in essere azioni nei confronti degli stessi maggiorenti del clan, in ragione della sua caratura criminale e della “voglia” che stava maturando di imporsi nell’ambito del clan e sul territorio».

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