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Omicidio Di Leo a Sant'Onofrio, sentenza ribaltata: Fortuna prima condannato a 30 anni ora assolto

Francesco Fortuna e la scena dell'omicidio

Assolto per non aver commesso il fatto. Questa la sentenza emessa oggi pomeriggio dalla Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro (presidente Petrini) a carico di Francesco Salvatore Fortuna, 38 anni di Sant'Onofrio.

L'imputato (difeso dall'avvocato Salvatore Staiano e dall'avvocato Sergio Rotundo) in primo grado era stato condannato a trent'anni di carcere per l'omicidio di Domenico Di Leo (alias icu 'i Catalanu), assassinato in un agguato tesogli il 12 luglio del 2004 a Sant’Onofrio. E la conferma della condanna, emessa al termine del processo con rito abbreviato, era stata richiesta dal pg Maffia.
Un delitto, quello di Di Leo, per il quale Francesco Salvatore Fortuna veniva ritenuto uno degli esecutori materiali. Omicidio aggravato dalle modalità mafiose, detenzione illegale e porto illegale di armi da fuoco comuni e da guerra e ricettazione i reati contestati.

A "incastrare" Fortuna, a dodici anni dall'agguato, era stato l’esame del Dna su un guanto di lattice rinvenuto nell’autovettura utilizzata dai killer ed alla cui guida quella notte c’era Andrea Mantella, collaboratore di giustizia che con le sue dichiarazioni ha contribuito a fare scattare l’operazione “Conquista”, anche lui armato di pistola e pronto ad entrare in azione qualora il kalashnikov di Fortuna ed il fucile a pompa di Francesco Scrugli si fossero inceppati. Le analisi eseguite su quel guanto di lattice in pratica hanno consentito di isolare un Dna che, comparato con il profilo genetico dell’imputato, sembrava aver dato completa sovrapponibilità. Ma così in realtà non è stato, tant'è che sul tasto Dna ha molto battuto la difesa dell'imputato sostenendo la mancata validità dell'esame in quanto non sono state rispettate alcune fondamentali procedure, per cui - e su questo gli avvocati Staiano e Rotundo hanno molto insistito - manca la certezza che il Dna isolato sia corrispondente al profilo genetico di Fortuna. Una circostanza già emersa in primo grado - all'epoca, infatti, era stato lo stesso pm a chiedere un incidente probatorio - ma i dubbi a quanto pare sono tutti rimasti anche in seguito alla perizia supppletiva richiesta lo scorso gennaio dalla Corte d'Assise d'Appello.

Nella notte tra l'11 e il 12 luglio del 2004 Domenico Di Leo moriva crivellato dai proiettili sparati di un kalashnikov e da un fucile a pompa caricato a pallettoni. Sul luogo del delitto furono repertati circa 45 bossoli, una vera e propria tempesta di piombo che non diede scampo a Di Leo che morì appena giunto in ospedale. I killer per bloccarlo lo avevano atteso nei pressi della sua abitazione in via Tre Croci di Sant’Onofrio e quando la vittima designata, che si trovava alla guida della sua Microcar, si era presentata a tiro avevano aperto il fuoco.

A contribuire a svelare i retroscena di quell’omicidio il pentito Andrea Mantella che ha raccontato per filo e per segno ai magistrati della Dda di avere portato in auto i killer nella zona dell’agguato, e confermato molte rivelazioni del collaboratore di giustizia Francesco Michienzi.

Secondo gli inquirenti a determinare l’uccisione di Domenico Di Leo sarebbero state frizioni all’interno del clan Bonavota. Ma il pretesto dell’omicidio sarebbe stato individuato in un’offesa fatta da Di Leo ad un maggiorente dei Bonavota, che aveva intrattenuto una relazione sentimentale con la cugina, da lui non condivisa, diventando la vittima «una pedina scomoda per il suo clan». In particolare Di Leo sarebbe entrato in conflitto con i vertici della sua stessa cosca per alcuni interessi commerciali sulla zona di Maierato. Inoltre sarebbe stato ritenuto responsabile del collocamento di un ordigno che aveva distrutto una concessionaria di autovetture “sotto protezione” della cosca.

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