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Presunto boss di Cutro morto per Coronavirus in carcere a Voghera, si apre l'inchiesta

Il coronavirus ha ucciso un detenuto calabrese. Si chiamava Antonio Ribecco, era di Cutro ed aveva 60 anni. La procura di Catanzaro ne aveva chiesto e ottenuto l’arresto nel dicembre scorso nel quadro dell’inchiesta “Infectio” che ricostruisce le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Umbria.

Il sessantenne, ritenuto capo promotore di un’associazione mafiosa operante in terra umbra, era stato arrestato dalla squadra mobile di Perugia. Trasferito nel carcere di Voghera, l’uomo non ha mostrato segni di malattia fino all’8 marzo quando, in un colloquio telefonico con la moglie, ha raccontato di avere disturbi influenzali. Disturbi per i quali aveva sollecitato l’intervento dei sanitari del penitenziario.

Cinque giorni dopo, il 13 marzo, l’imprenditore ritenuto legato alla cosca di Nicolino Grande Aracri, ha rivelato ai familiari di non riuscire ad alzarsi dal letto e di avere problemi respiratori. Nessuno, tuttavia, immaginava che avesse contratto il Covid-19. E solo il 18 marzo la notizia è diventata patrimonio conoscitivo dei suoi congiunti per via delle notizie fornite loro dai parenti di altri detenuti.

Cosa sia accaduto dall’8 al 18 marzo e come sia stato curato e assistito Ribecco non è del tutto chiaro: i legali del detenuto calabrese, Gaetano Figoli del foro di Roma e Giuseppe Alfì del foro di Perugia,  hanno stamane sporto una denuncia alla Procura di Pavia perché accerti le condotte tenute dal personale del carcere lombardo e verifichi se vi siano state comportamenti colposi e omissivi.

Antonio Ribecco, infatti, è stato solo successivamente trasferito nell’ospedale “San Paolo” di Milano e, dopo due giorni, nel nosocomio “San Carlo” sempre nel capoluogo meneghino dove in aprile è deceduto. «Ai familiari - spiega l’avvocato Figoli - non è stato mai comunicato che Ribecco stava male e che era stato trasferito in ospedale. È morto da solo senza che nessuno dei suoi parenti sapesse nulla. Vogliamo che la magistratura faccia chiarezza su quanto accaduto». La famiglia del detenuto vuol capire se gli siano state assicurate cure adeguate.

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