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Carcere di Catanzaro, un’umanità sofferente alla ricerca della rinascita

La quotidianità raccontata dal cappellano don Pilò

Suor Nicoletta Vessoni e don Giorgio Pilò

Il carcere, Catanzaro non fa eccezione, è un luogo di grande povertà, non morale e spirituale, come molti potrebbero pensare e come l'immaginario collettivo è portato a credere, ma proprio povertà fisica. «Nel carcere finiscono i poveracci. Il carcere è diventato un contenitore dei rifiuti della società. Certo ci sono anche i boss mafiosi, ma il 70-80% è povera gente, persone che non hanno famiglia alle spalle, né reddito o mantenimento e vanno aiutati perché non hanno soldi nemmeno per comprarsi l’acqua». A parlare è don Giorgio Pilò, cappellano del penitenziario “Ugo Caridi” che si trova nel quartiere Siano del capoluogo, lontano da tutto e tutti. Della famosa “villeggiatura”, anche retribuita, che i detenuti farebbero non c’è traccia. «C’è chi lavora – spiega don Giorgio – ma sono pochi e non hanno paga sindacale. Se fanno sei giorni gliene pagano tre, se fanno otto ore gliene pagano tre. Prevalentemente si tratta di indigenti. Si aiutano tra loro, certo, ma a molto pensiamo noi con la Caritas attiva all’interno».

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